smalto a fuoco su rame

Comunità di Sestu

Ai sognatori che vedono il tutto nel niente e fanno tanto con poco.

Chi siamo

Comunità di SESTU Cooperativa sociale Onlus.

Nata nel giugno del 1972, è una sorta di famiglia allargata che realizza un modello di convivenza ispirato alla cosiddetta semplicità volontaria. Il gruppo si autofinanzia con varie attività, tra cui la storica lavorazione artistica del rame, la corniceria e la più recente legatoria, gode di piena autonomia organizzativa e operativa al fine di raggiungere forme di economia a basso consumo e ad elevata qualità relazionale. Con la comunione dei beni e la valorizzazione delle potenzialità di ciascuno, si cerca di dare risposte a situazioni di disagio e di emarginazione, evitando di cadere nel rapporto compassionevole. Molto importante è la partecipazione alle dinamiche sociali del territorio per favorire una cittadinanza attiva.

 

 

Quando “occupammo” la casa di via Roma 14 a Sestu (piccolo centro agricolo alle porte di Cagliari), il 24 giugno 1972, per tentare di vedere se riuscivamo a stare insieme, eravamo forti dell’esperienza di Capodarco di Fermo (nella Marche): la prima comunità in Italia che cercava di offrire a persone invalide un’alternativa alla vita di istituto o all’isolamento in famiglia.
Il nostro gruppo aveva una grande aspirazione: camminare con le
proprie forze. Che voleva dire mettere in comune tutte le risorse e
provare a realizzare un’esperienza dove ogni persona non fosse
caratterizzata dalla sua condizione fisica, psichica o mentale. I primi anni furono difficili ma altamente formativi. Mantenemmo la nostra porta aperta e tanta gente vi entrò con tutto il carico di problemi e di aspirazioni.
Chi era in condizioni di farlo lavorava all’esterno in attività
precarie e mal pagate; altrimenti si cercavano lavori a domicilio.
Abbiamo imparato a conoscere il paese che ci ospitava stando a
contatto stretto soprattutto con la parte più debole della popolazione (analfabeta, senza casa, senza lavoro, priva di assistenza sociale, non in grado di far valere i propri diritti), con la quale si creavano momentanee alleanze finalizzate al raggiungimento di obiettivi di giustizia e di dignità.
In noi si andava sempre più rafforzando il convincimento che per favorire l’integrazione sociale delle persone più deboli occorreva
realizzare politiche sociali universali (che valessero cioè per tutti coloro che si trovavano in condizioni di svantaggio).
Integrare significava cioè accogliere, essere solidali, migliorare la
condizione delle classi sociali svantaggiate, sostenere tutte le riforme sociali che tutelassero la salute attraverso la prevenzione, la cura e la vera riabilitazione; occorreva inoltre una massiccia campagna di sensibilizzazione generale per abbattere le barriere culturali e mentali a causa delle quali, per esempio, i portatori di handicap (termine coniato negli anni ottanta) non venivano considerati cittadini a pieno titolo.
La scelta di non creare un gruppo “assistenzializzato” (mantenuto,
cioè, con denaro pubblico) ha permesso a ciascuno di noi di capire il senso del sacrificio quotidiano legato al lavoro vero e di non dividere le
persone in sane e malate. Tutti sulla stessa barca a remare secondo le proprie possibilità. La decisione di rimanere a Sestu, fortemente voluta dagli amministratori e dai politici del tempo (e da quella parte di popolazione che ci seguiva), quando l’Amministrazione Comunale prese la decisione di demolire la casa dove abitavamo (pericolante e dichiarata inabitabile) non fu facile. Il desiderio di essere sempre autonomi dalla politica e da chiunque potesse strumentalizzare l’esperienza erano forti
in noi tutti e soltanto la consapevolezza che la concessione del terreno che ci veniva dato in uso era atto politico “serio e ponderato” ci portò ad accettare di “mettere radici”.
Dopo una serie di campi di lavoro, anch’essi autofinanziati, che
portarono in paese centinaia e centinaia di giovani da tutto il mondo per aiutarci a costruire la casa in via Dante, poi battezzata via Quasimodo, nel settembre del 1976 ci trasferimmo nella nuova sede.
Successivamente abbiamo iniziato a costruire il laboratorio. Terminato il quale, in due ulteriori interventi, abbiamo ampliato l’abitazione per migliorare la sistemazione logistica dei conviventi. Già dal 1973 avevamo dato vita ad una Cooperativa di produzione e lavoro, considerando quella forma giuridica l’unica vicina alle nostre idee per “fare impresa”.
Inizialmente tutte le risorse umane e finanziarie sono
state impegnate nella lavorazione artistica del rame (qualcuno ci chiamava “la cooperativa del rame”), il cui addestramento aveva richiesto non meno di due anni di formazione presso il laboratorio di metalli della Comunità di Capodarco di Fermo (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi provincia con Porto San Giorgio). Ma era una strada troppo in salita.
La “monocultura” lavorativa si era ben presto dimostrata limitata
per dare al gruppo il pieno autofinanziamento. Occorreva allargare ad altri campi. Lentamente venivano aperti altri settori e solo a partire dal 1986 si riusciva a raggiungere il tanto agognato obiettivo di avere un laboratorio articolato in diverse attività, ciascuna autonoma, che permettessero anche a persone con limitate capacità di essere in qualche modo inserite e valorizzate.
Il lavoro, come abbiamo già detto, ha avuto un posto centrale
nella nostra esperienza. Senza questa “scelta”, probabilmente,
racconteremmo un’altra storia. Il lavoro in forma autonoma, poi, ci ha fatto sentire non protetti, spingendoci costantemente a dare soluzioni a tutti i problemi che si presentavano giornalmente.
Lavoro come strumento di sopravvivenza, ma anche come
condizione di condivisione paritaria. Lavoro vero dal quale dipende la tua dignità di persona, ognuna diversa. E per sentirsi uguali, e per farcela tutti i giorni, si mette in comune il guadagno e si attua la comunione dei beni. Con un’impostazione complessiva che riecheggia il modello di famiglia allargata.
La società è cambiata radicalmente. Se per un verso si sono
ottenute grandi conquiste (soprattutto è cresciuta la sensibilità verso alcune categorie svantaggiate e si è riusciti, in parte, a far crescere la cultura dell’integrazione e dell’inserimento lavorativo di portatori di disabilità fisica non grave, ieri completamente emarginati), dall’altra c’è il serio pericolo che vengano riproposti gli istituti dove ricoverare i più gravi: potranno anche chiamarle “Residenze Sanitarie Assistenziali” o con nomi graziosi, ma sono comunque l’edizione riveduta e corretta di realtà di ricovero che negano la dignità umana (e che fanno arricchire o sopravvivere chi li gestisce). Abbiamo anche il timore che, in nome del
libero mercato e della “libera” concorrenza, si vogliano ridimensionare alcuni diritti (pensiamo soprattutto al pericolo che corre la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, il lavoro tutelato, la previdenza sociale) e che, col pretesto della sicurezza interna, si cerchi di comprimere alcuni diritti fondamentali (chi ha fame, secondo noi, deve trovare di che nutrirsi, come la storia dell’emigrazione italiana nel mondo ci insegna).
Con questa forma di condivisione e di vita comune scopriamo,
ogni giorno, il piacere di un’esistenza ricca di novità e di stimoli
altrimenti impensabili. L’autofinanziamento e l’autogestione sono una grande risorsa che permette a ciascuno di sperimentare una buona sintesi tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra quotidiano a volte ripetitivo e, spesso, innovativo e creativo.

 

incensieri in rame

Calendario