Chi siamo

La Comunità di Sestu

Quando “occupammo” la casa di via Roma 14 a Sestu (piccolo centro agricolo alle porte di Cagliari), il 24 giugno 1972, per tentare di vedere se riuscivamo a stare insieme, eravamo forti dell’esperienza di Capodarco di Fermo (nella Marche), la prima comunità in Italia che cercava di offrire a persone invalide un’alternativa alla vita di istituto o all’isolamento in famiglia.
Il nostro gruppo aveva una grande aspirazione: camminare con le proprie forze. Che voleva dire mettere in comune tutte le risorse e provare a realizzare un’esperienza dove ogni persona non fosse caratterizzata dalla sua condizione fisica, psichica o mentale.

I primi anni furono difficili ma altamente formativi. Mantenemmo la nostra porta aperta e tanta gente vi entrò con tutto il carico di problemi e di aspirazioni. Chi era in condizioni di farlo lavorava all’esterno in attività precarie e mal pagate; altrimenti si cercavano lavori a domicilio. Abbiamo imparato a conoscere il paese che ci ospitava stando a contatto stretto soprattutto con la parte più debole della popolazione (analfabeta, senza casa, senza lavoro, priva di assistenza sociale, non in grado di far valere i propri diritti), con la quale si creavano momentanee alleanze finalizzate al raggiungimento di obiettivi di giustizia e di dignità.
In noi si andava sempre più rafforzando il convincimento che per favorire l’integrazione sociale delle persone più deboli occorreva  realizzare politiche sociali universali (che valessero cioè per tutti coloro che si trovavano in condizioni di svantaggio). Integrare significava cioè accogliere, essere solidali, migliorare la condizione delle classi sociali svantaggiate, sostenere tutte le riforme sociali che tutelassero la salute attraverso la prevenzione, la cura e la vera riabilitazione; occorreva inoltre una massiccia campagna di sensibilizzazione generale per abbattere le barriere culturali e mentali a causa delle quali, per esempio, i portatori di handicap (termine coniato negli anni ottanta)  non venivano considerati cittadini a pieno titolo.
La scelta di non creare un gruppo “assistenzializzato” (mantenuto cioè con denaro pubblico) ha permesso a ciascuno di noi di capire il senso del sacrificio quotidiano legato al lavoro vero e di non dividere le persone in sane e malate. Tutti sulla stessa barca a remare secondo le proprie possibilità.
La decisione di rimanere a Sestu, fortemente voluta dagli amministratori e dai politici del tempo (e da quella parte di popolazione che ci seguiva), quando l’Amministrazione Comunale prese la decisione di demolire la casa dove abitavamo (pericolante e dichiarata inabitabile) non fu facile.
Il desiderio di essere sempre autonomi dalla politica e da chiunque potesse strumentalizzare l’esperienza erano forti in noi tutti e soltanto la consapevolezza che la concessione del terreno che ci veniva dato in uso era atto politico “serio e ponderato” ci portò ad accettare di “mettere radici”.
Dopo una serie di campi di lavoro, anch’essi autofinanziati, che portarono in paese centinaia e centinaia di giovani da tutto il mondo per aiutarci a costruire la casa in via Dante, poi battezzata via Quasimodo, nel settembre del 1976 ci trasferimmo nella nuova sede.
Successivamente abbiamo iniziato a costruire il laboratorio. Terminato il quale, in due ulteriori interventi, abbiamo ampliato l’abitazione per migliorare la sistemazione logistica dei conviventi..
Già dal 1973 avevamo dato vita ad una Cooperativa di produzione e lavoro, considerando quella forma giuridica l’unica vicina alle nostre idee per “fare impresa”.
Inizialmente tutte le risorse umane e finanziarie sono  state impegnate nella lavorazione artistica del rame (qualcuno ci chiamava “la cooperativa del rame”), il cui addestramento aveva richiesto non meno di due anni di formazione presso un laboratorio di metalli nei pressi di Fermo (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi provincia con Porto San Giorgio). Ma era una strada troppo in salita. La “monocultura” lavorativa si era ben presto dimostrata limitata per dare al gruppo il pieno autofinanziamento. Occorreva allargare ad altri campi.
Lentamente venivano aperti altri settori e solo a partire dal 1986 si riusciva a raggiungere il tanto agognato obiettivo di avere un laboratorio articolato in diverse attività, ciascuna autonoma, che permettessero anche a persone con limitate capacità di essere in qualche modo inserite e valorizzate.
Il lavoro, come abbiamo già detto, ha avuto un posto centrale nella nostra esperienza. Senza questa “scelta”, probabilmente, racconteremmo un’altra storia. Il lavoro in forma autonoma, poi, ci ha fatto sentire non protetti, spingendoci costantemente a dare soluzioni a tutti i problemi che si presentavano giornalmente.
Lavoro come strumento di sopravvivenza, ma anche come condizione di condivisione paritaria. Lavoro vero dal quale dipende la tua dignità di persona, ognuna diversa. E per sentirsi uguali, e per farcela tutti i giorni, si mette in comune il guadagno e si attua  la comunione dei beni. Con un’impostazione complessiva che riecheggia la semplicità volontaria.
La società è cambiata radicalmente. Se per un verso si sono ottenute grandi conquiste (soprattutto è cresciuta la sensibilità verso alcune categorie svantaggiate e si è riusciti, in parte, a far crescere la cultura dell’integrazione e dell’inserimento lavorativo di portatori di disabilità fisica non grave, ieri completamente emarginati) dall’altra c’è il serio pericolo che vengano riproposti gli istituti dove ricoverare i più gravi. Potranno anche chiamarle “Residenze Sanitarie Assistite” o con nomi graziosi, ma sono comunque l’edizione riveduta e corretta di realtà di ricovero che negano la dignità umana (e che fanno arricchire chi li gestisce).
Abbiamo anche il timore che, in nome del libero mercato e della “libera” concorrenza, si vogliano ridimensionare alcuni diritti (pensiamo soprattutto al pericolo che corre la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, il lavoro tutelato, la previdenza sociale) e che, col pretesto della sicurezza interna, si cerchi di comprimere alcuni diritti fondamentali (chi ha fame, secondo noi, deve trovare di che nutrirsi, come la storia dell’emigrazione italiana nel mondo ci insegna).
Con questa forma di condivisione e di vita comune scopriamo, ogni giorno, il piacere di un’esistenza ricca di novità e di stimoli altrimenti impensabili. L’autofinanziamento e l’autogestione sono una grande risorsa che permette a ciascuno di sperimentare una buona sintesi tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra quotidiano a volte ripetitivo e spesso innovativo e creativo.

L’IMPEGNO SOCIO-POLITICO E CULTURALE DELLA COMUNITA’

E’ praticamente impossibile riassumere l’impegno nel campo socio-politico e culturale della “Comunità di Sestu” dalla sua nascita fino ad oggi. Un nostro limite è stato di non aver mai pensato ad una raccolta organica di quanto prodotto fin qui. Disponiamo di poco materiale e spesso è il ricordo di amici o qualche pubblicazione (non sempre a noi nota) che ci permettono di avere un quadro abbastanza verosimile.
Nei primi anni (praticamente fino agli inizi anni ottanta) le tematiche che ci hanno maggiormente visti impegnati erano quelle legate al mondo dell’invalidità e dell’emarginazione sociale in genere.
Organizzando convegni (come ad esempio quello per l’approvazione della Legge regionale n.6 del 1976 per la prevenzione, cura e riabilitazione dei portatori di handicap); sostenendo la nascita nell’ambito del 24° comprensorio, di cui anche Sestu faceva parte, di un servizio riabilitativo per handicappati (il primo della Sardegna proprio nella nostra cittadina); favorendo in ogni sede istituzionale le politiche favorevoli all’integrazione scolastica, familiare, lavorativa; contro ogni forma di nuova istituzionalizzazione, perché la persona con difficoltà potesse trovare sul suo territorio risposte concrete ai suoi bisogni. Nel contempo si cercava di favorire la nascita di cooperative “integrate” per tentare di avviare esperienze lavorative nelle tre (allora) province sarde (oggi ben otto).
La Comunità, in questa fase, è una sorta di laboratorio, punto di riferimento per singoli e gruppi che intendono impegnarsi per una diversa cultura della disabilità. In particolare si lavora con le famiglie affinchè (con i primi, miseri sussidi dello Stato) non allontanino i congiunti con invalidità grave, ma li aiutino a stare in famiglia, rivendicando con forza alla classe politica il diritto sacrosanto ad essere sostenute. In molti Comuni manca persino il servizio sociale (A Sestu verrà istituito alla fine degli anni settanta) ed i mezzi finanziari sono praticamente inesistenti.
Identico discorso vale per i malati di mente. Chiusi in manicomio, senza prospettive, privati di ogni elementare diritto, allontanati dai loro ambienti spesso con provvedimenti di natura poliziesca, sono al centro di un vivacissimo dibattito politico e culturale che in Sardegna arriva affievolito. Nel 1974, nel cinema “S.Antonio”, la Comunità organizza una giornata di sensibilizzazione con una mostra sulla situazione dei manicomi e con la proiezione di un film “Matti da slegare” che suscita discussione e polemiche accese. Sono anni difficili. La riforma Basaglia arriverà nel 1980, ma la Sardegna, come sempre, non è una regione modello. La riforma psichiatrica inizierà a decollare solo alle soglie del 2000 (quando verrà chiuso definitivamente il manicomio di Cagliari) e non sappiamo ancora quanto dovremo attendere per attuarla in pieno. Il governo Soru (ai primi di gennaio 2007) ha approvato il piano sanitario regionale (dopo vent’anni di attesa) e la questione psichiatrica è tra le priorità che si intende affrontare e portare a compimento.
In Italia alcune forze politiche vorrebbero, però, “ rinchiudere di nuovo con la forza” e non sappiamo se lo Stato sarà capace e disposto a fare di più per alleviare le sofferenze di tanti individui e delle rispettive famiglie (quando ci sono), che portano, spesso solitariamente, un peso inumano.
La droga a Sestu è arrivata alla fine degli anni sessanta. Pochi anni dopo il suo insediamento, la Comunità organizza nei locali della biblioteca comunale di via Gorizia un incontro-dibattito dal titolo emblematico “Droga. Che Fare?”, che significava che non se ne sapeva molto e che si brancolava nel buio. Non è nostra intenzione ricostruire quegli anni, quanto mettere in luce l’assoluto deserto di iniziative pubbliche e l’impegno, spesso senza risultati, di pochi pionieri che “si inventavano” interventi da strada, che troppe volte non erano in grado di risolvere i problemi. . Ricordiamo che a Sestu, per iniziative anche di alcuni giovani ” recuperati”, si era costituito un comitato “Prevenire, non punire”, a sostegno di un nostro concittadino che, divenuto operatore di una comunità di recupero all’estero, era stato arrestato quando era tornato in paese per fare visita alla madre. Il gruppo di giovani aveva fatto molte proposte valide relative alla riduzione del danno, al senso della pena, al valore del metadone, come terapia di mantenimento per chi aveva un lavoro e non voleva perderlo andando in comunità, all’importanza dei servizi pubblici per le tossicodipendenze (SERT), all’esigenza che nelle carceri i dipendenti da droghe trovassero anche le cure, e via di questo passo.
In questo primo decennio un altro fronte d’impegno fu quello del diritto alla casa. Alcune famiglie problematiche vivevano praticamente in situazioni invivibili e non esistevano le condizioni perché potessero trovare alloggi decenti. Si cercò di dare qualche soluzione provvisoria e si lavorò con le Amministrazioni del tempo per dar loro un appartamentino popolare adeguato.
Nel 1978 un evento tragico (la morte per “malasanità” di Bruno Fresi, distrofico, cofondatore della Comunità) fece scalpore anche a livello nazionale e mise in luce la drammatica arretratezza della sanità in Sardegna. I viaggi della speranza erano all’ordine del giorno e occorrevano conoscenze e “accozzi” per riuscire a partire in tempi accettabili. Fu, purtroppo, una grande occasione per una sorta di mobilitazione popolare di gruppi, associazioni, neonati “tribunali per la difesa dei diritti dei malati” per spingere la sanità pubblica ( di lì a poco nascerà il Servizio Sanitario Nazionale) a lavorare per dotarsi dei servizi e delle strutture essenziali non solo per i cittadini più deboli (anziani, handicappati, traumatizzati, nefropatici, ecc.) ma per tutti i cittadini che non avevano santi in paradiso. La riforma sanitaria avrebbe successivamente messo le basi per realizzare un modello universale (valido cioè per tutti i cittadini) dichiarando che la salute è un diritto primario. Chiunque segue queste faccende sa quanto sia non del tutto attuato questo principio, in particolare per chi non ha mezzi economici e non è in grado di scegliere ospedali e cure avanzate. Per non parlare della prevenzione, che è  ancora la cenerentola del sistema sanitario.
Negli anni successivi nascevano, anche in Sardegna, associazioni di “categoria” che avevano il fine di migliorare la vita di tanti individui in difficoltà (para-tetraplegici, dializzati, affetti da patologie genetiche, malati mentali e loro famiglie, e via dicendo)  che favorirono l’attuazione di riforme, la sensibilizzazione della gente, il miglioramento delle condizioni di vita, il crescere dell’interesse politico-istituzionale.
In poche parole: il prevalere della cultura dell’integrazione sociale diffusa nei confronti della vecchia concezione che tendeva a “nascondere” dentro strutture disumane, promiscue, fondamentalmente violente. Ma c’è ancora tanta strada da fare perché prevalga la cultura dell’accoglienza rispetto a quella della separazione. Ultimamente assistiamo ad un sempre più massiccio ricorso agli spettacoli di beneficenza per raccogliere fondi per le più disparate iniziative a favore di questa o quella organizzazione. Segno che l’interesse delle istituzioni per politiche sociali forti si vanno, in parte, affievolendo a tutto vantaggio delle organizzazioni potenti che riescono a rastrellare denaro con il determinante sostegno delle televisioni e del mondo dello spettacolo.
L’impegno sociale e culturale non è mai venuto meno. Convegni, seminari, dibattiti pubblici da una parte; teatro, cinema, spettacoli dall’altra. Per almeno dieci anni la Comunità si è impegnata per portare a Sestu tutto quanto veniva considerato spettacolo e animazione. Non esistevano spazi idonei e il “volontariato organizzato” era ancora di là da venire. A questa drammatica situazione si è cercato di supplire, con tutti i mezzi,  mettendo in moto tutte  le risorse disponibili e l’entusiasmo necessari. Ricordiamo ancora una rappresentazione incentrata sui drammatici avvenimenti cileni (il golpe militare in Cile che fece un bagno di sangue e uccise sul nascere il primo tentativo di democrazia nel continente Latino-Americano) che organizzammo nel cortile della casa Ugo sopra un carrello agricolo messoci a disposizione da un amico. Lo spazio era insufficiente e non potè contenere tutti. Questo tipo di iniziative andarono avanti per parecchio tempo. Nessuno veniva pagato e vigeva la regola della cena collettiva dopo gli spettacoli. La interrompemmo quando il Comune iniziò a promuovere iniziative, per non essere “mai” sostitutivi di un compito che spettava all’Ente Locale. Ci trasformammo, felicemente, in collaboratori e propositori, tutte le volte che era necessario e opportuno.
Gli incontri culturali, però, non si sono mai interrotti ed hanno spaziato in tutti i settori; politica regionale e nazionale, pace, sviluppo, divorzio, ora di religione, concordato Stato-Chiesa, cristianesimo e marxismo, condizione giovanile, politica internazionale, educazione alla pace, riforma socio-assistenziale, aborto, devianze giovanili; questioni energetiche, fonti alternative e rinnovabili, educazione ambientale e socio-sanitaria, agricoltura senza pesticidi, politiche urbanistiche, questione rifiuti, raccolta differenziata, denuclearizzazione, lingua sarda, fede e folklore, usi e costumi della Sardegna. Si sono anche, a più riprese, organizzati seminari di approfondimento per giovani frequentanti corsi di formazione per operatori socio-sanitari e, in varie occasioni, si è messo a disposizione il nostro centro studi per ricerche sia nel settore dell’handicap che in quello dell’educazione alla pace e alla nonviolenza.
Non sono mancate alcune tesi di laurea sia su temi legati al mondo della disabilità e alle politiche sociali, sia a temi quali l’obiezione di coscienza, le tecniche di difesa popolare  nonviolenta, lo sviluppo in Sardegna dei movimenti di base (anni 80/90) come risposta della società (successivamente definita “civile”) nei confronti della politica organizzata.
Con la collaborazione del Comune, a metà anni ottanta, si è realizzata una importante scuola di launeddas, affidata al maestro Aurelio Porcu di Villaputzu (uno degli ultimi grandi maestri della tradizione musicale della Sardegna), che è durata tre anni con risultati importantissimi non solo per la rinascita dello strumento, ma anche per creare una nuova generazione di suonatori. Per la cronaca: l’ultimo grande incontro tra i quattro “grandi” suonatori dello strumento (Dionigi Burranca di Ortacesus, Aurelio Porcu, Giovanni Casu di Cabras e Luigi Lai di San Vito) è avvenuto nell’aula consiliare di via Scipione il 14 marzo 1986.
Oggi ci sono decine e decine di validi musicisti e lo strumento (unico al mondo) sta conoscendo una nuova primavera.

 

IL MOVIMENTO DEGLI OBIETTORI

I primi quattro obiettori di coscienza arrivarono a Sestu nel 1974. Uno di loro addirittura era stato condannato per renitenza alla leva (non si era presentato alla chiamata alle armi) e poté trasformarsi da criminale ricercato in obiettore di coscienza in servizio sostitutivo civile presso la “Comunità di Sestu”. La legge che legalizzava il rifiuto di indossare la divisa militare venne approvata dal Parlamento nel dicembre 1972, ma ci volle più di un anno per definire in che modo gli obiettori avrebbero assolto all’obbligo della leva. Scartata l’idea di organizzare un “servizio civile” gestito direttamente dallo Stato (per esempio nel corpo dei vigili del fuoco o nella forestale), prevalse la linea di convenzionare organismi che svolgevano un ruolo sociale (comunità, enti di patronato, associazioni culturali) dove distaccare i giovani per il servizio sostitutivo civile. Che aveva la durata di venti mesi ( otto mesi in più della leva militare). Il primo Ente convenzionato dal Ministero della Difesa fu la Comunità di Capodarco di Fermo (Ascoli Piceno), dove si era formato il gruppo che dette vita alla “Comunità di Sestu”.
In Sardegna il fenomeno era alquanto limitato. Per circa un decennio gli obiettori furono poche centinaia e gli enti convenzionati qualche decina. Accadeva spessissimo che, in mancanza di posti nell’isola, i Sardi fossero mandati in Continente e viceversa.
La “Comunità”, non appena ebbe spazi e qualche strumento operativo, accolse l’idea di creare un centro d’informazione e, successivamente, di formazione per favorire lo sviluppo dell’obiezione di coscienza  in Sardegna. Dagli inizi degli anni ottanta venne ufficialmente creata la sede regionale della LOC (Lega Obiettori di Coscienza), che ha sospeso la sua attività con la fine dell’obiezione di coscienza alla leva militare.
La segreteria dell’organismo è stata quasi sempre in mano a giovani obiettori formati a catena che accettavano di concepire il servizio civile non solo in termini di “prestazione lavorativa” all’Ente di assegnazione, ma anche come “lavoro politico” per favorire nella società la cultura della pace  e della nonviolenza.
Alcuni giovani obiettori si sono distinti per impegno e abnegazione non solo per migliorare la 772 (legge lacunosa, che discriminava gli obiettori, sottoponendoli ad una sorta di esame della loro coscienza e facendo fare loro otto mesi in più di servizio rispetto ai militari), ma anche per favorire interventi di interposizione nonviolenta nelle aree di guerra. La LOC sarda ha svolto un ruolo chiave non soltanto sul versante obiezione ma, col contributo determinante della “Comunità”, ha dato vita a seminari di formazione nelle scuole, nelle biblioteche, negli enti di servizio civile, al fine di sviluppare quei germi di rigetto della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.
Con l’entrata in vigore della legge 230, che ha riformato sostanzialmente la 772, il numero degli obiettori è cresciuto notevolmente. In parte sono venute meno alcune motivazioni “politiche” ed è prevalsa una concezione “serviziocivilista” che ha portato, dopo la sospensione della leva obbligatoria, all’istituzione di un servizio civile nazionale volontario, retribuito, in prevalenza femminile, che sa tanto di presalario e di formazione professionale.
Dopo la fine della cosiddetta guerra fredda e l’implosione dell’impero sovietico, è stata ufficialmente inaugurata la guerra umanitaria seguita dalla guerra al terrorismo. Non sappiamo dove ci porteranno. L’unica certezza che abbiamo è che la pace è nemica acerrima dei fabbricanti di armi e di tutti coloro che si arricchiscono seminando morte e distruzione ovunque ci sono interessi economici da difendere. L’obiezione di coscienza alle armi e alla guerra sono quanto mai attuali e necessarie. Come è necessario affrontare con coraggio e determinazione le battaglie per un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile e la sperimentazione di forme di vita comunitaria che aiutino a modificare dentro di noi i modelli relazionali e i comportamenti sociali.

Sestu Aprile 2007